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Un libro


Gianni Nigro
Ortensie
29/03/2012

Da un sacco di anni (tanti, ma tanti per davvero) medito di cambiare casa, di andarmene da Milano, magari dall’Italia, magari dalla stessa Europa.
E non lo faccio mai.
Poi, all’improvviso, anche in seguito ad una sospetta e mai comprovata allergia da acari della polvere, ho svuotato la libreria che avevo in camera. Acari o non acari, l’ho svuotata.
Dopo mesi e mesi ho iniziato a riempire delle scatole, ma non bastavano mai. Allora passavano altri mesi e finalmente comperavo altre scatole, le riempivo e non bastavano mai.
Poi mi sono reso conto che avevo fatto una confusione totale e ho svuotato tutte le scatole, senza però rimettere i libri nella libreria della camera (la presunta allergia, ricordate?)
L’allergia non c’è più da un anno, gli acari non lo so, la voglia di andarmene da Milano sì, sempre.
Tuttavia, riempiendo e svuotando, spostando e rispostando, a forza di avere in mano quei libri, comperati dieci, venti, quaranta, cinquanta anni fa, mi è tornata un pochettino di voglia di rileggerli. Qualcuno, non tutti. Prima uno. Poi un altro. E un altro ancora ... E ho scoperto, o meglio ri-scoperto …
il piacere della lettura.
Già. Io scrivevo ma coloro che leggevano ciò che avevo scritto, che piacere ne ricavavano?
Chi lo sa.
Ora, all’improvviso, d’impulso, dopo averlo visto da lontano ogni tanto per anni, ho ripreso in mano “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese. Quanto tempo è passato da quando è passato tanto tempo!
Mi ricordo che ero a casa, mi annoiavo, e soprattutto mi lamentavo con mio padre di non avere tra mia giovane libreria, (giovane come ero giovane io) quel libro. E lui mi disse: andiamo.
Mio padre era fatto così. Non potevo esprimere un desiderio, che si faceva in pezzi per esaudirlo. Ed è proprio per questo che non gli chiedevo mai niente!
Insomma, prendemmo il 14 (inteso come tram), si scese in centro (ancora mio padre ed io usavamo l’espressione andare in città, per dire come invece dicevano i milanesi andare in centro, con “e” chiusa, chiusissima, praticamente andare in céntro) e nei pressi di piazza del Duomo mi comperò il libro. Più o meno doveva essere il 1966.
E adesso il libro è lì, giace a venti centimetri dalla mia mano sinistra, accanto a quello scatolone nero e metallico che a quei tempi mi sarebbe sembrata mostruoso, detto anche case, dove c’è l’hard disk, dove c’è la RAM, dove c’è la CPU e tante altre belle cose. Poi sulla scrivania c’è anche il modem della banda larga, il monitor, il mouse, la tastiera.
Che stridore, tra quel libro e tutta questa roba. Le pagine di quel libro erano state scritte quasi tutte a mano, spesso a matita.
Leggo le ultima due righe:

Tutto questo fa schifo.
Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

Adesso io ho molti più anni di quanti ne avesse Cesare Pavese quando ha scritto quelle tragiche parole.
E continuo a sopravvivere. E a voler cambiare casa, città, nazione, continente.
Cambiare vita, sì. Sopprimerla, decisamente no.



Ortensie


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